Riflessione sul senso di fragilità
Noi e la moderna medicina
La medicina attuale ha realizzato progetti che un tempo sembravano sogni fantasiosi e grazie alla sinergia con la tecnologia, specie quella informatica, ha compiuto passi da giganti che tutti noi non possiamo che constatare e apprezzare.
Grazie a questo connubio, oggi ci troviamo nelle condizioni di poter identificare e trattare patologie anche molto gravi grazie ad una prevenzione attenta, una diagnosi accurata e trattamenti mirati.
Diagnosi sempre più precoci
La scienza medica e l’ingegneria biomedica hanno senza dubbio sviluppato numerose tecniche che, negli ultimi decenni, ci permettono di identificare in tempi rapidi situazioni critiche e, quindi, di trattare e sopravvivere a patologie anche gravi. L’allungamento della vita e le migliorate condizioni di vita ne mostrano i risultati.
Malattie come il diabete di tipo 2, il cancro e le demenze si possono, almeno in parte, prevenire proprio grazie a queste metodiche (fonte: ISS).
Entrare nell’ “ingranaggio della diagnosi”
Queste discipline sono senza dubbio nostre alleate e non vanno certo guardate con sospetto: bisogna però riconoscere che, quando ci sottoponiamo ad alcune procedure medico-diagnostiche, può capitare di provare una certa “scomodità” che può giungere anche a procurare fastidio se non, addirittura, un certo dolore psicofisico.
Queste situazioni legate al discorso della prevenzione e della diagnosi precoce possono risultare “scomode” e non di rado essere fonte di conflitti di natura psichica, più o meno lievi, che possono arrivare anche a turbare i nostri giochi di equilibrio e scatenare una forma di disagio alla quale non siamo avvezzi.
Procedure diagnostiche e routine: qualcosa si spezza
Quando ci sottoponiamo ad una procedura diagnostica di tipo medico, interrompiamo la nostra solita routine: prendiamo un permesso dal lavoro, una pausa dalla famiglia, fermiamo per qualche istante la nostra “solita vita” per dedicare del tempo alla nostra salute.
Luoghi diversi, volti nuovi
Usciamo quindi dalla nostra “zona di comfort” per ritrovarci in un centro medico, luogo che solitamente non frequentiamo, magari sconosciuto e ci troviamo insieme ad altre persone che, come noi, sono “in attesa”: in ansiosa attesa prima di entrare nella sala medica, in paziente attesa durante lo svolgersi dell’esame, in trepidante attesa dopo, quanto aspettiamo di conoscere l’esito della “prova”.
Gli altri pazienti hanno volti per noi nuovi, di solito, in sala d’aspetto: volti sconosciuti che escono o entrano dalle stanze, tra i quali, sovente, gli operatori sanitari stessi.
Tutto questo “nuovo”, questo incontro con lo “sconosciuto”, contribuisce senz’altro a farci sentire poco a nostro agio, “sulle spine”, di fronte ad alcune enigmatiche incognite (cosa posso arguire da quel viso? Sarà un operatore paziente? Un medico bisbetico? Sopravvivrò a tutto questo?).
Il passaggio di “status”
In queste occasioni, anche se siamo di fronte ad un “semplice” controllo – un prelievo venoso se partiamo dal livello zero, un ago aspirato o una risonanza magnetica se saliamo di grado – la sensazione che ci pervade può essere quella di sentirci “malati”: dobbiamo “spogliarci delle nostre vesti”, siamo costretti ad indossare un camice che ci trasforma in “pazienti”, a mettere garze, bende, cerotti e questi cambiamenti possono aprire uno spiraglio sulla possibilità di trovarci in una condizione clinica non immaginata prima, alla quale non siamo avvezzi, con la quale forse potremmo doverci confrontare. Il pensiero, in ogni caso, è naturale che passi anche su questa considerazione: potremmo doverci confrontare con un esito inatteso. Potremmo dover pensare anche allo spezzarsi di una vita.
Il senso di fragilità
Il senso d’incertezza, quindi, aumenta: la veste professionale che di solito indossiamo non ci aiuta più. D’improvviso non ci sentiamo più impiegati, avvocati, artigiani, commesse o casalinghe … ci tramutiamo in pazienti. Siamo corpi, parti di organismi sottoposti a procedure mediche, a occhi che ci scrutano in profondità, quasi in segretezza.
Ci sembra che avvenga un lieve cambiamento nel percepire la nostra identità e ciò può aumentare la sensazione di incertezza e farci entrare in contatto con una dimensione di fragilità, esposti alle “intemperie” del mondo circostante. Jean-Luc Nancy, in un bellissimo libriccino, scrive: «Identità equivale a immunità, l’una si identifica con l’altra. Abbassare l’una è abbassare l’altra»
Le sensazioni
Quando ci sottoponiamo ad una visita o ad un esame di tipo medico, solitamente è il nostro corpo a posizionarsi “in primo piano”. Il soma viene, quindi, osservato da specialisti, da tecnici di laboratorio e questo essere osservati porta anche noi a restare in allerta, a guardarci attraverso lo sguardo altrui, tramite le lenti della scienza, confrontati all’uomo “medio” che non esiste.
Iniziamo a fare caso a sensazioni alle quali, solitamente, non diamo peso: il respiro, il battito cardiaco, la sudorazione delle mani, una lacrima inaspettata. Osserviamo il nostro organismo quasi fosse estraneo, quasi diffidenti, nella paura che possa averci mentito, in qualche forma sottile, perché fino a ieri sentivamo di star bene.
Ci accorgiamo di essere perforati, insufflati, deprivati, notiamo suoni e rumori insoliti (specie in procedure di diagnostica per immagini), vibrazioni della pelle, parti del corpo che cambiano colore e ci soffermiamo sui nostri organi di senso e sul nostro “esserci nel mondo”.
Un corpo (troppo) in ascolto
A volte, in questi frangenti, il corpo diventa un fastidioso testimone, un medium che ci fa contattare la scomodità, fino, a volte, al dolore fisico; tutto questo ci spinge ad estraniarci da lui, quasi come se la nostra fisicità fosse una fonte di fastidiosa interferenza.
Vorremmo non essere “nel qui ed ora”, ma “lì e allora”: cerchiamo, quindi, di distrarre la mente dal corpo, di non focalizzarci in quel momento, in quella esperienza… ma a volte non è possibile, perché la sensazione ci inchioda al presente e siamo costretti ad un impotente, indifeso subire.
Il corpo reificato, quasi un estraneo
In questi istanti, il nostro corpo diventa “oggetto” nelle mani di altri, coloro che sono deputati alla sua ispezione e alla valutazione: il corpo viene posizionato nelle macchine, viene immobilizzato o, al contrario, ci è richiesto di muoverci in un certo modo (ad esempio nelle prove da sforzo).
Questo assecondare le raccomandazioni ci fa sentire “in balìa” dell’altro, come dei burattini nelle mani altrui, soggetti passivi, remissivi, assecondanti, privi di iniziativa: e ci fa tornare bambini, a quando eravamo “corpi” nelle mani di madri, bambinaie, pediatri, educatori.
In una parola, queste condizioni comportano una “regressione” ad una modalità infantile che ci fa entrare in contatto con vissuti di impotenza, fragilità, caducità. Il tutto si amplifica quando siamo tenuti a mantenere una posizione orizzontale, proprio quella disposizione spaziale tipica dell’età evolutiva. L’onnipotenza che a volte pervade la vita adulta sembra solo uno sbiadito ricordo poco confortante.
Il tempo
In questi momenti, il tempo si trasforma, si dilata, si restringe, stagna, oscilla tra l’oggettivo e il soggettivo, fino a farsi sempre più personale, anche perché lontani da timer e dispositivi orari. Mi viene in mente La persistenza della memoria, di Dalì, quel messaggio che arriva così immediato e che ci ricorda che la percezione temporale cambia a seconda di molti fattori, tra cui l’umore, lo stato ansioso.
Alcuni minuti dentro una TAC sembrano ore infinite e rischiamo di perdere la cronologia di quel frangente. Vorremmo che scorresse più in fretta, vorremmo anestetizzarci dalla percezione del tempo che scorre…ma siamo inchiodati lì, magari con un braccio collegato ad un’ampolla con liquido di contrasto, con le cuffie alle orecchie per non sentire gli strani rumori che provengono dalle macchine che comunque sentiremo, su scomodi lettini, in assurde posizioni o, peggio, incoscienti perché sotto anestesia, ancora più fragili e svigoriti, depotenziati.
Figure di riferimento rassicuranti
In frangenti come questi, vorremmo essere rassicurati: l’auspicio è quello di incontrare personale sanitario che non applichi l’esame diagnostico come se fosse una noiosa e scontata routine, come il timbro sotto la mano dell’addetto alle spedizioni. Piuttosto desidereremmo un approccio empatico, parole di conforto, anche semplici incoraggiamenti sulla brevità della prova, per esempio.
Vorremmo – a proposito di regressione – che i sanitari capissero il profondo sentimento di frangibilità che ci troviamo a fronteggiare. Vorremmo sentire con le nostre orecchie che siamo stati coraggiosi e che la prova, già iniziata, presto avrà termine, che non sarà “infinita” come potrebbe apparire.
A volte, piccole proposte d’aiuto, anche uno sguardo di comprensione empatica, di intesa, possono fare molto per smorzare quegli stati d’animo così spiacevoli da vivere, eppure così umani.
Bibliografia consigliata
Jean-Luc Nancy (2000) L’intruso, Cronopio
Articolo della dott.ssa Giorgia Aloisio, psicologa e psicoterapeuta (Roma).
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