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Io, paziente: un’etichetta ambulante

Nella pratica terapeutica che svolgo, mi sono più volte trovata di fronte ad una domanda: “dottoressa, qual è il mio disturbo? Qual è la diagnosi?”.
La domanda, da parte del paziente, è più che lecita e comprensibile: abituati come siamo oggi, direi proprio ‘immersi’ in una cultura che tende ad etichettarci come si fa con un barattolo di marmellata, a medicalizzare ogni tipologia di sintomo senza attribuire al malessere un significato ed un ruolo nell’economia di vita del paziente, la domanda sorge spontanea. Ma a cosa serve la diagnosi? Perché il paziente desidera essere classificato? Cosa potrà farsene di questa etichetta? È giusto comunicarla, da parte del terapeuta?

Le origini e il significato

Il termine nosologia deriva dal greco: νοσος (nosos) “malattia” e λογος (logos) “parola” o “discorso” e significa, appunto, classificare in maniera sistematica le patologie.

La nosologia – e più in generale la classificazione – esiste per mettere in comunicazione specialisti afferenti a varie aree del sapere e serve per descrivere la condizione di ogni paziente, per “semplificare” la globalità dell’individuo riportando su un piano generale il particolare di ogni persona, affinché sia possibile confrontare tra di loro casi diversi, nel tempo e nel luogo. Naturalmente tutto ciò viene fatto allo scopo di cercare una soluzione alle problematiche che il paziente porta. Si parte dal singolo per arrivare al generale, per poi tornare di nuovo al particolare, un percorso circolare, in sostanza, un ambito che spetta allo specialista, più che al paziente: e questo discorso vale soprattutto in ambito psicologico, dove il confine tra sanità e malattia è davvero molto sottile e risulta rischioso distinguere in maniera categorica il soggetto completamente sano da quello completamente ‘patologico’.
Attraverso la classificazione, lo specialista agisce attivamente sul paziente, disegnando le linee del futuro percorso terapeutico; in questo modo parte il progetto terapeutico e l’etichetta, pur restando in piedi come un ‘cartello stradale’ che indica ed orienta il lavoro dello psicologo e/o psicoterapeuta, viene lasciata alle spalle.

La ‘benedetta’ diagnosi insieme all’ipotesi diagnostica sono utili allo specialista perché lo indirizzano sulle metodologie da preferire per affrontare le problematiche del paziente e in psicologia, descrivono la personalità e i suoi tratti più o meno adattativi.

Nanni Moretti e Silvio Orlando ne La stanza del figlio (2001)

Dalla parte del paziente

Qual è l’utilità di ricevere una diagnosi, dal punto di vista del paziente? Nella pratica clinica ho riscontrato un certo senso di benessere legato alla comunicazione della diagnosi: come dire che ricevere un’etichetta equivale a essere in qualche maniera contenuti, definiti, individuati. Ma la personalità di un individuo non si limita a una diagnosi e il suo universo interiore va ben al di là delle aree grigie del suo carattere e del suo comportamento. ‘Consegnare al paziente’ una diagnosi rischia di limitare e minimizzare la complessità di ognuno di noi, pone un paraocchi, è come un cannocchiale attraverso il quale si possono osservare alcuni aspetti, trascurandone degli altri. Ma il paziente non può e non deve essere identificato con il suo disturbo: oltretutto questa identificazione potrebbe risultare del tutto fuorviante per colui che la riceve. Purtroppo questo rischio riguarda anche noi specialisti, a volte eccessivamente concentrati sugli aspetti patologici della persona, che invece possiede anche lati sani della personalità da valorizzare ed incentivare.

Ricevere una diagnosi, per una persona che non ha dimestichezza con la terminologia, che non è addetta ai lavori, può in alcuni casi dare adito a fraintendimenti e confusioni terminologiche, contribuendo addirittura a peggiorare la sintomatologia.
Con l’uso di internet, inoltre, quella che poteva sembrare una innocua comunicazione rischia di trasformarsi in una maschera (ricordiamo che il termine ‘persona’ deriva dal latino e significa proprio maschera) dalla quale in alcuni casi è difficile se non impossibile liberarsi: questo accade anche perché molto spesso il paziente cerca sul web ulteriori spiegazioni e risposte rispetto a quelle ricevute dal terapeuta e dato il carattere generico e generalista della comunicazione online, non è infrequente che si sia portati a collegare al proprio caso dei sintomi che non esistono nella realtà o che magari sono connessi ad un’altra, differente condizione.

Invece di consegnare un’etichetta, sarebbe decisamente più utile che, dopo i primi colloqui, il terapeuta desse una descrizione della personalità del paziente e si soffermasse con lui a riflettere sulle sue dinamiche psicologiche: il confronto e il lavoro su se stessi, da parte di chi consulta uno specialista, sono il mezzo più prezioso per raggiungere una trasformazione autentica e definitiva per migliorare il proprio stile di vita, ottimizzando le proprie competenze e le naturali tendenze adattative.

Articolo della dott.ssa Giorgia Aloisio, psicologa e psicoterapeuta (Roma).

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