Il dilemma dell’estraneo – storie di altruismo estremo, di Larissa MacFarquhar
Articolo della dott.ssa Giorgia Aloisio, psicologa e psicoterapeuta (Roma)
In tempi di scandali Oxfam (per avere un’idea, clicca qui), mi ritrovo ad occuparmi di temi quali l’altruismo, la generosità, la donazione di denaro e di organi. Ispirandomi al determinismo psichico del maestro Sigmund Freud, sento di dire che nulla è casuale, … ma questo è un mio pensiero!
I dilemmi morali
Ogni giorno ci troviamo di fronte a dilemmi morali più o meno rilevanti: vediamo un biglietto dell’autobus scivolare fuori dalla tasca di uno sconosciuto che sale sul mezzo e ci chiediamo se abbia senso avvisarlo di ciò che sta accadendo oppure se sia meglio pensare agli affari nostri, perché dopotutto non è un problema che ci riguarda, ci poteva pensare prima, quest’uomo, invece di comprare dei jeans con le tasche ristrette, e poi dovrebbe curarsi del titolo di viaggio, … Perché sbilanciarsi? Perché sacrificarsi?
Le questioni morali fanno parte della quotidianità della nostra vita, non possiamo evitarle: ma ci sono questioni e questioni, scelte che possiamo decidere di rinviare e domande che possiamo evitare di porci, anche per tutta la nostra esistenza. Alcuni individui provano uno smodato desiderio di fare del bene agli altri, quasi un’urgenza di ordine morale che non possono evitare di mettere in pratica e che arriva addirittura a creargli grandi difficoltà; in alcuni casi questo slancio porta a preferire l’estraneo al parente stretto – cosa a tratti riprovevole, ma non incomprensibile. Se pensiamo ai tempi in cui c’era la guerra – come ci ricorda MacFarquhar in questo saggio dedicato alla crescita personale – ci accorgiamo che a quell’epoca difendere sconosciuti dai nemici era all’ordine del giorno e salvare cento persone mai viste anziché una conosciuta non era per nulla un gesto immorale, al contrario. I benefattori estremi, in questo senso, vivono tutti i giorni come se fossero in tempi di guerra.
Donazioni non scontate
Qualche anno fa su The Guardian ho letto una storia che mi ha veramente colpita: quella di un uomo che ha deciso di donare uno dei suoi reni ad uno sconosciuto (per leggere l’articolo, clicca qui). Non è il primo essere umano che fa una scelta simile, naturalmente, ma la cronaca, raccontata dal donatore, le sue riflessioni, le sensazioni e la messa in atto della donazione mi hanno veramente incollata al testo.
Le domande che possono sorgere, di fronte ad un gesto così forte, insolito e azzardato, sono numerose: perché non donare il proprio sangue, farlo anche regolarmente, invece di privarsi un organo sano, funzionante e darlo per di più ad un perfetto sconosciuto? Quali possono essere le motivazioni che portano una persona a sentirsi così in debito nei confronti degli altri, quali gesti orribili deve aver bisogno di espiare costui? Cosa spinge una persona sana ad entrare in sala operatoria e uscirne ‘malata’ con dolori, punti, cateteri, tubi e la prescrizione di dieci giorni di riposo assoluto?
Le precedenti domande mi hanno orientata verso questo tipo di riflessione e mi sono sintonizzata con il tema dell’altruismo, a me caro. Così mi sono ritrovata a leggere il libro di cui sto scrivendo, Il dilemma dell’estraneo, di Larissa MacFarquhar, edito da Mondadori. Tra le molte affascinanti storie di vita, attraverso questa lettura ho imparato nuovi concetti: per esempio ho scoperto cosa sia il ‘world equity budget’ (o WEB) di cui non avevo mai sentito parlare prima.
La scelta
Il cosiddetto ‘WEB’ consiste nel suddividere il reddito mondiale complessivo per il numero di abitanti del pianeta (una pensata veramente stramba): in questo modo, le persone che decidono di vivere in modo etico (ma molto etico!), stabiliscono un budget medio che vogliono concedersi. La parte di denaro ‘in eccesso’ rispetto a questo calcolo, viene poi devoluta in beneficienza tramite le infinite modalità che l’altruismo conosce. Uno dei personaggi descritti dalla MacFarquhar, per fare un esempio, decide di vivere proprio in questo modo, cioè di spendere appena qualche decina di dollari al mese.
L’autrice, giornalista del New Yorker dal 1998, racconta la scelta di persone che arrivano a scegliere di lavorare con il solo scopo di devolvere parte o la totalità del proprio stipendio in beneficienza, di gente che partendo da una situazione economica agiata, vende o regala ogni avere e finisce per vivere sotto ai ponti pur di dare tutto il possibile ai più bisognosi.
Il saggio ‘estremo’ di Larissa
Il saggio in questione è veramente ‘estremo’ e ci fa conoscere storie di vita che definirei a tratti decisamente bizzarre e a volte al limite dell’accettabile: sono storie di persone che un giorno hanno deciso di dedicarsi agli altri, agli estranei meno fortunati e di farlo senza remore né indugi, mettendo a volte in serio pericolo la propria vita e/o quella dei propri cari. Come la vicenda di Baba e Indu che, in India, decidono di utilizzare tutto il loro denaro per creare un lebbrosario in cui accogliere i malati dei dintorni e dove far scorrazzare tranquillamente i loro bimbi (con il rischio di farli ammalare, oltre che di mettere in pericolo la propria salute fisica). Storie che raccontano il dolore, l’empatia, ma anche il brivido della sfida, l’adrenalina del gesto pericoloso ma salvifico (per l’altro e … per sé).
Nel saggio viene narrata, tra le varie storie, quella relativa alla nascita dell’associazione degli ‘Alcolisti Anonimi’ (AA) fondata da ex alcolisti che avevano deciso di aiutare le persone soggiogate dall’etilismo a uscire dal tunnel; una creatura, quest’associazione, che ha in seguito dato vita ad un’altra organizzazione sorella, gli ‘Al-Anon’, dedicata ai parenti degli alcolisti che spesso sprofondavano nella franca psicopatologia perché l’ aiuto che fornivano al parente alcolista si trasformava in un coinvolgimento tormentato ed eccessivamente devoto. Non è un caso che la cofondatrice di questa seconda associazione sia stata la moglie del cofondatore degli Alcolisti Anonimi.
Questa vicenda porta l’autrice a ricordare il bellissimo saggio ‘Donne che amano troppo’ di Robin Norwood, un famosissimo best seller internazionale (uno tra i diversi libri di questa scrittrice) che ha posto l’accento sulla dipendenza affettiva e sull’impossibilità, da parte di alcune donne, di liberarsi da relazioni patogene.
Viene poi raccontata la storia di Sue e Hector, fin da adolescenti affascinati dall’idea di adottare bambini, che dopo aver avuto due figli naturali cominciano a conoscere il mondo delle adozioni e scelgono di accogliere nella propria famiglia un numero spropositato di bambini di varie provenienze, etnie e disabilità fino a collezionare la bellezza di ventitré figli. Si trattava di bambini provenienti da realtà svantaggiate, passati da un orfanotrofio ad un altro senza mai fermarsi, che non avrebbero avuto alcuna chance di essere scelti per l’adozione: quindi perché non dare un tetto, un letto e una famiglia anche a loro?
Nonostante molti di questi ‘eroi’ vengano reputati dei veri e propri santi, vengono da altri ritenuti dei tipi strambi, patologici perché dipendenti dal loro ‘fare del bene agli altri’.
Riflettere su queste storie ‘estreme’
Sicuramente questo genere di storie ci stimola a riflettere e a vagliare le scelte umane, a confrontarci con gli altri e con noi stessi, a riconsiderare l’importanza che attribuiamo ai nostri bisogni e a quelli altrui: ci viene da domandarci perché scomodarsi tanto per persone che non si incontreranno mai, come ‘i poveri’, ‘i bambini del Terzo Mondo’ e sorge il dubbio che abbia preso il sopravvento su di noi una malsana illusione di onnipotenza. Queste storie di vita hanno anche aspetti inquietanti e in alcuni punti grotteschi sui quali desidero soffermarmi.
Mi viene in mente, pensando alla bizzarria dei casi, la storia di Aaron, paladino dei polli oppressi negli allevamenti intensivi che, ad un certo punto della propria vita, si trova a doversi confrontare con il ricovero del padre affetto da depressione grave: il dilemma di questo benefattore aviario assume toni rocamboleschi e davvero stravaganti nel momento in cui si domanda se impiegare il proprio denaro per pagare la retta ospedaliera del padre ricoverato in psichiatria sia cosa buona e giusta o che non sia piuttosto meglio staccare le macchine, interrompere le terapie e tornare a devolvere il suo denaro alla sfortunata vita dei gallinacei, apparentemente più bisognosi di quei soldi.
Penso alla coppia che aveva la passione per l’adozione, che ad un certo punto viene a scontrarsi con il malcontento dei figli, con l’impossibilità di occuparsi in modo soddisfacente dei bisogni di tutti quanti, con le numerose, precoci gravidanze delle varie figlie che aumentavano la problematicità e la complessità di una gestione familiare già di per sé estremamente turbolenta; per non parlare di quando Sue ed Hector si sono dovuti confrontare con il rapporto ‘incestuoso’ tra due dei loro figli, con la morte di tre di loro e altre tristissime disavventure.
A cosa ci serve “fare del bene” in termini psichici
Fare del bene (soprattutto a degli estranei) ci può restituire molto in termini di benefici psicologici: mi riferisco alla sfera narcisistico – libidica, a quel piacere che proviamo quando l’altro ci è riconoscente per un servizio, un favore che gli abbiamo reso in modo gratuito e quindi generoso. Fare del bene produce bene, stabilisce circoli virtuosi che danno più senso alle nostre giornate, genera maggiore ottimismo e favorisce un ricircolo di serotonina (l’ormone della felicità) non indifferente.
Rispetto al bene che possiamo compiere nei confronti dei nostri familiari, il gesto benefico verso l’estraneo sembra più puro, disinteressato, afinalistico, migliore. Inoltre, come già accennato, oltre al feedback che riceviamo e che ci gratifica, fare del bene in questo modo (soprattutto nella sua variante estrema) costituisce una vera sfida che già nel momento in cui la progettiamo ci dà un brivido e ci spinge a mettere tutto in gioco pur di raggiungere un obiettivo così insolito e impopolare.
A parte gli eccessi descritti dall’autrice, le storie di queste persone possono farci pensare e mettere in parte in discussione i nostri standard comportamentali: la domanda più utile da porsi non è ‘come mai queste persone sono così’ quanto piuttosto ‘perché noi non siamo più simili a loro’.
A questo link potete seguire una breve intervista dell’autrice (in inglese).